Come tutti sanno il mercato del lavoro in Italia  (ed in Europa piu’ in generale) e’  rigido. Ma cio’  in presenza di un mercato competitivo nei beni e servizi (dove il conto non puo’ piu’ essere traslato sui consumatori in termini di prezzi crescenti) e’ di fatto un cocktail esplosivo. Aggiungiamoci un possibile intervento/incentivo statale a supporto dello status quo e la distruzione di ricchezza e l’impatto negativo sulla competitivita’ si fa’ insostenibile.

Infatti se un gruppo possiede un’ azienda (o un ramo di attivita’ ) che va male non puo’ ristrutturare e ridurre i costi (tra cui quelli del personale) per tornare a competere sul mercato.  A maggior ragione se l’azienda si chiama Italtel con una sua storia di lotte sindacali d’avanguardia. Gia’ nel 1995 (all’epoca ero  consulente in McKinsey e lavorai ad un progetto in Italtel-Siemens) i confronti con i concorrenti  internazionali mostravano impietosamente che per alcune aree di attivita’ il gap competitivo (es. maggiori costi) era ormai quasi incolmabile. Solo attraverso processi di profonda ristrutturazione con esuberi di alcune migliaia di addetti si sarebbe potuto rimettere le cose a poste. Ma ovviamente cio’ non era politicamente/socialmente sostenibile.


La storia recente di Italtel ci dice che dal 1998 in poi alcuni rami di azienda in perdita (es. Italtel Sistemi)  e con essi gli addetti tecnicamente "in esubero" furono ceduti a certi “improbabili” imprenditori sulla base di una doppia promessa: da una parte da parte di Italtel di mantenere un certo livello di ordini e quindi di fatturato per 2/3 anni e dall’altra parte dello stato/politici di erogare contributi pubblici per rilanciare investimenti su nuovi prodotti. Da questa strategia nacquero a cavallo del duemila due iniziative "imprenditoriali" ovvero  Tecnosistemi prima e il Finmek poi. Oggi entrambi i progetti sono o falliti o sotto procedure concorsuali a seguito di avvenute insolvenze. In entrambi i casi sono in corso indagini della magistratura per bancarotta fraudolenta e distrazione.

Gran parte (se non la totalita’) dei posti di lavoro sono andati persi. Con l’aggiunta di ulteriori perdite da parte dello stato per le sovvenzioni erogate a sostegno dei progetti di rilancio. Ne valeva la pena davvero? E’ questo il modo migliore per sostenere le persone e le famiglie che sfortunamente si trovano ad avere un lavoro non piu’ produttivo? Sono stati adottati e messi in campo gli ammortizzatori sociali e gli incentivi piu’ efficaci al fine di consentire a queste persone di trovare un’altra occupazione sul mercato?

A sentire dall’ inchiesta di Report di Rai 3 Il Grande Crac che si e’ occupata due volte del caso negli sei mesi sembrerebbe di no. Gli addetti rimasti sono disperati: oltre a non avere piu’ il lavoro si sentono derubati, traditi. Oltra al lavoro hanno perso la fiducia nel sistema che rendera’ la ricerca di una nuovo lavoro ancora piu’ difficile. Non sarebbe stato forse meglio, meno traumatico e sicuramente meno costoso per il sistema Italia consentire che quei rami di azienda venissero ristrutturati e al contempo supportare i dipendenti in esubero per qualche anno con gli opportuni ammortizzatori sociali e sostegni al reddito, investire sulla loro riqualificazione e spingerli poi a cercare una nuova attivita’ sul mercato?

Come lucidamente espresso e documentato dai Prof. Giavazzi e Alesina nel loro ultimo libro Goodbye Europa la distruzione creativa e l’assenza dell’intervento diretto dello stato nell’economia  e’ una tra le condizione essenziale per il rilancio dell’economie del vecchio Continente.  Ma quante Alitalia, Finmek, Tecnosistemi ci dovranno ancora essere prima che qualcuno a Roma (o forse meglio tra la gente nel Paese) si accorga che cosi’ non funziona?

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